"Le madri non dormono mai", recensione del romanzo di Lorenzo Marone

 
Lorenzo Marone


Lorenzo Marone (classe '74), scrittore napoletano, è tradotto in diciassette Paesi. Ha pubblicato libri di successo a partire da "La tentazione di essere felici"  (2015) romanzo da cui è liberamente tratto il film "La tenerezza" (2017) di Gianni Amelio. 

PRIGIONI VERE E METAFORICHE
“Per molti la libertà è la facoltà di scegliere le proprie schiavitù”. Sono parole dello psicologo francese Gustave Le Bon citato velatamente nel romanzo di Lorenzo Marone: “Le madri non dormono mai” (2022, Einaudi). Stavolta lo scrittore partenopeo abbandona i toni lievi della commedia e consegna al lettore una trama commovente e drammatica che sfocia in un finale ad affetto, impossibile da dimenticare. Lo spazio in cui si svolge l'azione è quello degli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri) dove le donne scontano la pena e al contempo tengono con sé i propri figli - bambini che non abbiano superato però i dieci anni di età.

"LE MADRI NON DORMONO MAI", VITE FRAGILI 
Lorenzo Marone narra delle esistenze spezzate che popolano le case-prigione (celle simili a micro appartamenti). C'introduce nel mondo degli ultimi. Dei vinti. Inghiottiti dal buio. Soprattutto quando si trovano fuori, all'aria aperta, in quei rioni di cui portano addosso i segni. Non c'è speranza per quanti debbono combattere da soli: alla fine si spaccano in mille pezzi. Eppure non c'è salvezza neanche per coloro che, disperati, senza vere alternative, accettano di fondersi col branco, andando incontro a una catena di tragedie. Questi personaggi di Marone somigliano a Felice Lasco nato dalla penna di Ermanno Rea. Lasco protagonista di "Nostalgia". Lasco che dopo quarant’anni trascorsi all’estero, lontano lontano, rincasa, a Napoli, mosso da un desiderio irrefrenabile di riappropriarsi delle radici. Ma il rione è feroce. Non fa sconti. Lasco non potrà cambiare rotta a una linea già tracciata. 

La vita si manifesta in tutta crudezza, a queste anime gracili descritte da Marone. Diego, il protagonista, è un bambino di nove anni. Cresciuto tra vicoli spietati. È cagionevole di salute e sovrappeso, i ragazzini lo prendono in giro, lo picchiano. Lui è buono. La docilità lo rende un marziano. Bersaglio facile agli occhi crudeli di chi ha scelto di abbracciare cieca violenza. Paradossalmente Diego si salverà in carcere dove vive con la madre Miriam, dietro le sbarre per coprire le colpe del marito. Miriam è giovane ma ha il cuore indurito. Non si fida di nessuno, tantomeno degli uomini. È schiva. Niente tenerezza. Neppure verso il figlio. Perché, ripete, gli agnelli se li divora il lupo. 

Diego in carcere incontra persone buone. Nuovi amici. Psicologi e guardie (quasi figure paterne) che si prendono cura di lui. Conosce Melina una bambina con cui stringerà un legame fraterno. Melina è anche lei delicata. Fatica a camminare. Melina trascorrerà parecchio tempo nella cella di Miriam e Diego perché la madre malata verrà trasferita in ospedale. E allora i tre diventeranno una sorta di famiglia. Diego e Melina sognano di poter abitare, una volta usciti di prigione, in una bella fattoria con cavalli e pecore e di fare il formaggio, guadagnando soldi. Melina si diverte ad annotare parole su un quadernetto. Disegna. "A volte mi pare che quella cella è stata l'unica casa che ho avuto", dirà un giorno Diego, pervaso dall'amarezza. 

Oltre a Diego e Miriam e Melina e altri detenuti, troviamo, in questa storia anche chi, pur non essendo costretto in carcere, si sente prigioniero ugualmente. Perché schiavo di labirinti mentali o di intrecci inestricabili: situazioni che, malgrado tutto, non possono esser cambiate. Alcuni desiderano disperatamente un figlio, altri sono stretti in un matrimonio infelice. Ciascuno di essi tiene sulle spalle un fardello pesantissimo. E, paradossalmente, i veri prigionieri, i detenuti, trovano maggiore libertà dentro e non fuori, quel fuori popolato di belve, in un mondo che sembra concedere loro soltanto illusioni. 

©micolgraziano 

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