Recensione: "Room", il bestseller di Emma Donoghue

 

Room

È Jack a raccontare tutta la storia, con la lingua fantasiosa che solo i bambini sanno inventare, e un nome diventa un verbo, e tutto è capovolto: immaginando. Jack ha cinque anni, non ha mai visto il cielo, il sole, gli alberi, niente di niente, non ha amici, se non gli oggetti della sua stanza: Letto, Armadio, Piumone, Specchio. È tra queste mura che lui vive, da sempre, con sua madre, Ma'. Jack non è mai uscito. Qualcuno, un tale Old Nick, lo tiene lì, prigioniero. Jack è un eroe tragico. “Room”, pubblicato nel 2010, è il romanzo più famoso della canadese Emma Donoghue, tradotto in tutto il mondo. Il libro è diventato un film di successo ("Room", 2015) e Brie Larson, nel ruolo di Ma', ha vinto l’Oscar come miglior attrice protagonista. Donoghue è stata ispirata, racconta, dalla cronaca più macabra, e da altro: l'infanzia, il legame, tenero e fortissimo, che i figli instaurano con i genitori, ha preso in prestito le battute, i modi di dire dei più piccoli, compresi quelli di suo figlio, che aveva cinque anni, l'età del protagonista, quando lei scriveva "Room". Ma, Donoghue, che parla di sguardi che pietrificano, conosce bene anche la mitologia: Danae, principessa di Argo, imprigionata dal padre, prima, e rinchiusa in una cassa, dopo. E, ovviamente, le favole: Rapunzel, segregata, in mezzo al bosco, in una torre altissima, senza porte e senza scale. "Room" è un libro che cambia, per sempre, il modo di vedere la vita.


©micolgraziano

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